Lo scorso 7 dicembre, mentre l’Italia affrontava l’ennesima crisi di governo, la Commissione affari sociali del Parlamento metteva finalmente a punto il testo base per una legge che riconosca il diritto del cittadino a vedere rispettate le proprie volontà in merito a questioni di trattamento sanitario, al fine di evitare l’accanimento terapeutico. La speranza, ora come ora, è che l’urgenza di incombenti questioni legate alla stabilità del nuovo governo non allontani il raggiungimento della tappa finale di questo documento.
Le situazioni legate ai trattamenti medici di fine vita sono un argomento molto ostico in Italia, dove troppo spesso i temi delicati della bioetica sono trattati con scarso rigore scientifico e abbondante dogmatismo.
La situazione italiana sulle cosiddette “volontà anticipate di fine vita” presenta un clamoroso ritardo legislativo rispetto alla media dei Paesi europei.
Spesso si parla di eutanasia, confrontandosi con le legislazioni di altri paesi che l’hanno legalizzata (tra i più famosi Olanda e Belgio), oppure di suicidio assistito (per esempio la Svizzera è tra i paesi che lo consentono, anche agli stranieri, qualora si rechino negli ospedali svizzeri), ma troppo spesso questi termini vengono manipolati e strumentalizzati.
Il percorso per il riconoscimento delle volontà anticipate sui trattamenti di fine vita, ad esempio, non è una legalizzazione dell’eutanasia. Si tratta invece un provvedimento per cui l’Italia manca all’appello da molti anni, cioè dal 1997, quando, in seguito alla convenzione di Oviedo, quasi tutti i paesi europei hanno recepito nelle loro legislazioni il vincolo delle volontà del paziente nel rifiutare i trattamenti medici indesiderati. Questo fa sì, ad esempio, che qualora il paziente si opponga fermamente alla prosecuzione delle cure, soprattutto in caso di malattie terminali, i medici non possono imporre l’alimentazione forzata.
Il diritto al rifiuto delle cure è sancito dalla costituzione Italiana all’articolo 32. Tuttavia, mancando una legge che recepisca le direttive anticipate di fine vita, molti pazienti si trovano a non poter scegliere.
I casi famosi di Eluana Englaro (le cui volontà sono state testimoniate e portate avanti con tenacia dal padre e tutore Beppino Englaro) e Piergiorgio Welby, sono la testimonianza di lunghe battaglie in un estenuante confronto e scontro con le istituzioni italiane, spesso sotto gli occhi dei riflettori, pur di sensibilizzare la politica al problema dell’accanimento terapeutico. In entrambi i casi, il forzato proseguimento delle cure (alimentazione artificiale nel caso di Eluana e respirazione automatica nel caso di Piergiorgio) costringeva due persone a subire un trattamento sanitario che esse avevano pienamente dimostrato di non essere disposte a tollerare.
La ragione del loro diniego era il destino inevitabile di due malattie che non danno scampo: lo stato vegetativo per lei e la distrofia facioscapolomerale lui. Entrambe malattie con un vicolo cieco che non lascia dubbi sulla propria sorte.
Sul diritto di morire esistono molte opinioni, alcune più dogmatiche, che rispondono al razionale “la vita è sacra”, alcune più liberali, che rispondono all’imperativo morale dell’autonomia decisionale, almeno sul proprio corpo.
La differenza è che le prime tendono a voler imporre quel razionale a tutti, in antitesi con la prospettiva opposta, la quale invece, per sua stessa definizione, non ha questa pretesa. L’ostinazione a sostenere la sacralità della vita a qualunque costo, finisce paradossalmente per dissacrare i malati che, in quanto persone, sono la rappresentazione più concreta della vita.
Il salto di qualità del pensiero può essere fatto se si prende la sacralità dal piedistallo della vita, genericamente intesa, per spostarla alla singola persona. Inoltre, dovremmo riconsiderare il ruolo della medicina, la quale non deve curare le malattie, ma le persone malate, con i loro desideri e limiti.
Leopardi scrisse, in una delle sue operette morali, che la natura ci destinò come medicina di tutti i mali la morte. Per chi gode di buona o discreta salute è difficile concepire il desiderio di morte come unica soluzione a un grande e inevitabile male, tuttavia, è proprio così che appare la morte a chi non ha scampo.
Ci siamo abituati al fatto che la medicina ha inventato poderosi e geniali sistemi per prolungare la nostra vita, ma non dimentichiamo che nessun atto medico è senza rischio e per qualcuno, i più sfortunati, il rischio è di rimanere intrappolato in un’agonia futile e dolorosa.
La fiducia nel progresso e nella razionalità umana ci fa rifuggire l’idea della morte, dimentichi dell’insegnamento della tragedia greca, la quale ci racconta di quando re Mida interpellò il sileno sulla migliore sorte desiderabile dagli esseri umani e questi gli ricordò quanto fosse sciocco a non realizzare che lui era solo un misero mortale. Sebbene mortali, abbiamo tutto il diritto di procrastinare la morte, finché possibile, ma quando l’elusione è dolorosa e illusoria, è giusto lasciare spazio alla rassegnazione. Questo testo base è una buona partenza per lasciare spazio decisionale e dignità a chi ha manifestato la convinzione di rinunciare ad accanirsi e prepararsi all’imminente fine del proprio viaggio.