Parte domani la “tre giorni“ 2015 di esami per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato. I tantissimi aspiranti si apprestano ad affrontare le difficoltà e le insidie di una prova oggettivamente impegnativa ma che, in realtà, se superata, garantisce ben poche prospettive occupazionali, in concreto, ai futuri avvocati. Ma per quali ragioni?
Certamente il problema parte da lontano e merita di essere analizzato anche da un punto di vista storico.
“Buongiorno, avvocato“. “Buongiorno a lei, si accomodi“. “Mi spiace di averla disturbata, avvocato, ma ho un problema“. “Ci mancherebbe altro, la mia segretaria mi ha già anticipato della sua urgenza, vengo pagato (profumatamente, n.d.r.) per questo: prego, si accomodi e mi racconti“. Era così, pressapoco, il primo incontro con un avvocato nel 1991.
Era così, pressapoco, il mondo lussuoso ed aristocratico descritto dal libro che ha fatto avvicinare tanti giovani a questa professione, “Il Socio” di John Grisham, per quanto il protagonista, Mitch McDeere, fosse un idealista…! Ed erano tanti, tantissimi anni fa. Sembra passato un secolo da allora, eppure il titolo professionale è rimasto quello. Mica è cambiato! Ma cosa ha distrutto una professione che, fino a non troppo tempo fa, era considerata come prestigiosa ed invidiabile?
Troppa ignoranza, troppi errori, scarso impegno nella formazione, bassissima qualificazione professionale. Queste le cause primarie. Un ordinamento universitario mediocre non può che produrre dei meri faccendieri del diritto, del resto, e non già dei professionisti. Capirete, allora, come il problema stia a monte.
Più di mille iscritti l’anno, in media, considerando le singole facoltà di giurisprudenza italiane. Di questi se ne laureeranno un gran numero, anche se in 8, 9 o 10 anni. Ognuno ha i suoi tempi nello studio, è vero, ma siamo certi che tutti siano capaci e competenti, degni di una laurea magistrale? Difficile a dirsi. In conseguenza di ciò, quindi, è un numero spropositato quello dei laureati in giurisprudenza. Di questi, la maggior parte tenterà la carriera in avvocatura o, perlomeno, proverà a fare la “pratica da avvocato”. Perché anche se “non farei mai l’avvocato, sono nato per fare il magistrato, il notaio o quant’altro… però intanto un titolo… non si può mai sapere nella vita…” è il motto della maggior parte dei laureandi, la realtà si scontra con dei dati numerici impietosi, penalizzando chi, magari, questa professione desiderava davvero intraprenderla. Il numero degli avvocati italiani, infatti, è di circa 223.000. Avete capito bene, un avvocato ogni 270 cittadini.
Si è raggiunta la saturazione, insomma. Aggiungete, poi, le varie possibilità di “aggirare” il sistema (quanti “abogados” di – presunta – lingua spagnola o “advocati” di – sempre presunta – lingua rumena vediamo all’interno dei nostri tribunali, ogni giorno?) ed avrete il quadro pieno del problema.
Un disastro, quindi. Un disastro che non importa a nessuno, però? Non direi! Tribunali intasati, giustizia approssimativa, ritardi su ritardi, errori su errori, arrivismo spietato tra colleghi. Ed a pagarne le spese sono i cittadini! Ma è davvero questa la giustizia? È davvero questo il sistema? Purtroppo si. È vero anche, però, che questo sistema lo abbiamo voluto noi.
Mi darete del qualunquista ma, giusto per generalizzare: vi fareste mai curare da un medico incompetente? No, è ovvio. Non pretendereste, allora, di essere difesi da un avvocato competente, qualora ne aveste bisogno?