In Treatment è una serie tv poco paragonabile con tutto ciò che l’ha preceduta. Sarà che proviene da un format israeliano (anzi: non sarà mai per questa ragione, dato che una parte diffusa dell’occidente lo ha tradotto senza particolari problemi di adattamento); sarà che, più che lo svolgimento di scene d’azione, libidine, dolore, si assiste al racconto, il racconto pronunciato, fluente e vivido solo nelle parole dei protagonisti. Perché? Perché tutto si basa su sedute psicoanalitiche di circa mezzora con lo psicologo Giovanni Mari (Sergio Castellitto).
La regia di Saverio Costanzo (altra chicca: un figlio d’arte italiano, il figlio del giornalista Maurizio; mentre, negli Stati Uniti, la serie è diretta da Rodrigo García, figlio dello scrittore Gabriel García Marquez) trasferisce a Roma lo studio di psicoanalisi di Be’Tipul, la serie tv israeliana da cui tutto nasce. E sceglie, Costanzo, un cast importante come già García ha fatto negli States. A Roma, davanti a Castellitto, si sono avvicendati Kasia Smutniak, Barbora Bobulova, Adriano Giannini; in questa seconda stagione, in onda tutte le sere su Sky Atlantic alle 19:45, c’è Michele Placido, nei panni di un noto imprenditore reso fragile da piaghe della sua infanzia, da uno scandalo che ha travolto la sua azienda, dall’amore ferito per sua figlia.
Com’è strano vedere Castellitto “scimmiottare” un po’ Gabriel Byrne, il suo equivalente americano. Ma più strano, forse, sarebbe stato vederlo ascoltare, discutere, addolorarsi, imbestialirsi, qualche volta, in una versione tutta sua, tutta scollata da quella che ha fatto scuola nel mondo: perché il Paul Weston di In Treatment (Gabriel Byrne), in effetti è un parametro ingombrante e inevitabile per chiunque.
Lo sguardo di cristallo, la voce bassa e profonda, la mutevolezza naturale, ricca di vezzi nervosi e vivi, il plasma di un personaggio che si mescola con quello dell’attore fino a non esserne più distinto. In Italia, la serie non raggiunge e non sfiora nemmeno le vette del capolavoro di Rodrigo García. Ma resta un esperimento coraggioso e gradevole; probabilmente, a un pubblico “vergine”, che non conosce il format da cui è stato tradotto, può sembrare un prodotto dirompente. E certamente lo è, a suo modo, nel nostro Paese: per quanto non sempre gli attori siano credibili (bocciata, a nostro avviso, la Sara di Kasia Smutniak lo scorso anno: eppure avrebbe dovuto farci girare la testa come il suo personaggio aveva fatto con il protagonista, suo psicoterapeuta) e i dialoghi non abbiano quell’atmosfera ovattata e naïf che contagia, travolge, se si guarda l’In Treatment americano.
Un controverso Michele Placido, una confusa coppia Bobulova-Giannini (in America, nella seconda stagione, arrivava una coppia di neo-divorziati tutta nuova; a Saverio Costanzo sarà sembrato che le problematiche poste nella sceneggiatura di questi due personaggi fossero assimilabili e compatibilissime con i due pazienti dell’anno precedente), una magnetica Greta Scarano, non bastano a catalizzare e convincere completamente: ma la serie risulta originale e, nell’insieme, ben sceneggiata e recitata. Isabella Ferrari veste, in questa seconda stagione, i panni della prima fidanzata di Giovanni (Sergio Castellitto, appunto), che, appena separato dalla moglie (Valeria Golino), affronta i suoi stessi drammi di fronte a una psicoterapeuta ben interpretata da Licia Maglietta.
Teatro e letteratura in azione sono la ricetta di questo format. Una ricetta che, piccole ingenuità a parte, è giustissimo incoraggiare e apprezzare anche nella versione italiana.